Verrebbe quasi da non crederci: il Friuli è terra di fave. Addirittura, fino all’inizio dell’800 era una delle colture più diffuse, soppiantata successivamente dall’invasione dei fagioli. Eppure, questo rustico legume ha sfamato generazioni di friulani. La prova documentale è data dal fatto che gli affitti dei terreni in tempo venivano pagati con parte del raccolto, ovvero in frumento, vino e, appunto, fave, che normalmente non venivano coltivati semplicemente negli orti, ma in pieno campo, quindi su ampie superfici.
“Dove si semena fava dopo vene bona ogni biava (intesa come generalità di cereali)”ricorda lo storico dell’agricoltura friulana Enos Costantini, citando un documento quattrocentesco della famiglia de Portis di Cividale. E a conferma che non si tratta di un legume esclusivamente mediterraneo, quindi solo appannaggio delle località meridionali della Penisola, numerose sono le citazioni nelle vallate carniche.
Lessate o nelle minestre
Come venivano consumate? Normalmente nelle minestre, così da arricchirle e addensarle; ma seccate e macinate diventavano una farina da aggiungere nella panificazione. Addirittura, tostate e macinate consentivano di ottenere un surrogato del caffè. Molto spesso, però, erano semplicemente lessate e condite con un po’ di sale, accompagnandole anche a cipolle, per diventare un pranzo semplice per mezzadri e braccianti impegnanti nei campi. Oggi, la coltivazione è sparita e in commercio troviamo soltanto prodotti in gran parte d’importazione.
Eredità dolciaria
Di questo loro contributo, però, ci rimane una tradizione interpretata, però, dalla pasticceria comune non solo alle varie zone della nostra regione, ma più o meno di tutta Italia. Infatti, era usanza consumare fave durante le veglie funebri. Quando questo legume è caduto in ‘disgrazia’, anche perché associato alla miseria dei contadini, la consuetudine si è trasformata nel consumo delle favetis dai muarts, tipiche dell’inizio di novembre e fatte con uova, zucchero e mandorle.