La pitina è un prodotto veramente unico, in quanto non è confrontabile con altri salumi simili e, così, ogni semplificazione può apparire errata o, per lo meno, insufficiente. È un salume, ma non è insaccato. Può ricordare il salame, ma non è contenuta in alcun budello. È affumicata, ma protetta da farina di polenta. Le sue origini risalgono alla notte dei tempi e appartengono alle vallate del Friuli occidentale, in particolare Val Tramontina, Valcellina e Val Colvera, assumendo anche le varianti del nome in peta e petuccia. Qui, di necessità virtù, i contadini, ma anche cacciatori (e a volte bracconieri), avevano l’esigenza di conservare la carne e hanno escogitato un metodo del tutto originale.
Il percorso della valorizzazione
La sua valorizzazione e scoperta da parte del grande pubblico di gastronomi è relativamente recente. Fu Mattia Trivelli, macellaio di Tramonti di Sopra, all’inizio degli Anni ’80 ad avere l’intuizione che quel cibo umile, frutto di una economia di sopravvivenza, prodotto e mangiato nell’ambito strettamente familiare, poteva incontrare il gusto del consumatore e iniziò la produzione a livello artigianale. Non si limitò a venderle la pitina nella sua macelleria, ma andò a proporla nelle più importanti fiere della regione, facendola apprezzare a un pubblico ben più vasto di quello locale. Tanto che iniziarono le ‘imitazioni’ fuori dal territorio tradizionale, che spinsero lo stesso Trivelli nel 1989 a presentare domanda di registrazione del marchio.
È, poi, del 2000 il riconoscimento quale presidio Slow Food, che ha fatto conoscere la pitina fuori dai confini regionali. Da lì il passo verso un riconoscimento istituzionale ed europeo è stato quasi dovuto, seppur si sia rivelato lungo e complicato. Infatti, l’iter per l’ottenimento dell’Indicazione geografica protetta (Igp) è iniziato nel 2007 e non si è ancora concluso. L’associazione di produttori, guidata da Filippo Bier, spera di giungere presto all’audizione pubblica, un passaggio che consentirebbe una protezione transitoria in attesa dell’ok finale dell’Unione europea, ma che permetterebbe già di adottare il marchio e vedere imposto il disciplinare, così da distinguere la vera pitina dalle volgari imitazioni.