C’era una volta il Comitato regionale di controllo, che dal 2001 non c’è più. Serviva ad arginare, regione per regione, le disinvolte decisioni che le amministrazioni dell’italico Stivale avrebbero prodotto in quantità industriale se non ci fosse stato un vaglio che esaminasse il rispetto dei mille cavilli presenti nel mare magnum delle leggi italiane, ma anche, e soprattutto, dell’elementare buon senso. Era solo uno degli esempi di come la Prima Repubblica tentava di limitare l’arbitrio decisionale che può prendere la mano di chi amministra. Ma i Coreco non ci sono più: aboliti per effetto della legge costituzionale 3 del 2001, che ha riformato il Titolo V della Costituzione. La riforma, in realtà, ha abrogato solo l’articolo 130 della Cart,a che prevedeva l’istituzione di questi organismi. Nessuna Regione, però, ha scelto di tenerli in vita, anche perché, nel frattempo, la Bassanini li aveva già depotenziati. Nel nome della semplificazione, la Repubblica fondata sulla burocrazia ha eliminato innanzitutto i controlli scomodi. Le questioni scomode, invece, sono rimaste dov’erano.
Oggi elastici, ieri inflessibili
Lo vediamo a proposito della questione delle incompatibilità, venuta a galla a livello nazionale con Vincenzo De Luca, ma anche in casa nostra con i casi di Enzo Marsilio ed Enio Agnola. Con il paradosso che, mentre la questione dell’ineleggibilità del governatore campano era nota agli elettori che l’hanno votato comunque (ora il suo vice ne rivestirà le funzioni), la condizione di incompatibilità in cui sarebbero versati i due consiglieri friulani del Pd quando percepirono i contributi regionali in veste di presidenti di cooperative che gestiscono Albergo Diffuso non era nota. Nemmeno agli interessati, entrati a far parte del plotone dei beneficiati dalla politica ‘a loro insaputa’. E senza conseguenze pratiche: qui l’organo di controllo, la giunta per le elezioni, una volta rimosse le condizioni di incompatibilità con le dimissioni di prammatica dalle cooperative suddette, non ha avuto margine di intervento, posto che mai ne avesse avuto la volontà. Cosa che fra ‘colleghi’ è sempre antipatica. Ed è talmente rara che oggi porta l’unico eletto escluso dal consiglio regionale per la natura manifesta del suo conflitto di interessi, il leghista Stefano Mazzolini, a sentirsi ‘figlio di un Dio minore’, amareggiato per l’inflessibilità di allora comparata all’elasticità di oggi.
Rinviati a giudizio
A chi si chiede come sia possibile, e se ci possano essere ancora casi di conflitto di interessi, bisogna dare delle risposte in fretta. Ne va della serietà del sistema. Anche perché non è questione di partiti. Prima o poi, le vicende giudiziarie toccano a tutti: esclusi i nuovi inquilini del palazzo, i consiglieri del M5S. Salva l’innocenza di chiunque fino a condanna definitiva, va ricordato che Elio De Anna (Fi), Daniele Gerolin (Pd) e Mara Piccin (Lega) sono stati rinviati a giudizio con 14 ex colleghi per peculato rispetto alle spese sostenute nello scorso mandato, mentre per Rodolfo Ziberna (Fi) l’accusa è di turbativa d’asta.
Nella Prima Repubblica, i controlli non hanno impedito Tangentopoli e una corruzione che, però, ha portato a galla più che altro il malcostume del finanziamento illecito ai partiti. Oggi, tra le emergenze troviamo in primis l’abuso d’ufficio e l’interesse privato in atto pubblico. Abbiamo già riferito del disappunto di Debora Serracchiani, che ha già esternato i suoi mal di pancia rispetto alle condotte che mettono a repentaglio la fiducia dei cittadini verso le istituzioni. Ma lei è la prima a sapere che le prese di distanza non bastano, se non sono suffragate da fatti concreti. E, visto che la sfiducia nei confronti dei consiglieri non è possibile e che gli interessati le dimissioni non le daranno mai, l’unico segnale forte è agire pro futuro per evitare che queste situazioni si ripetano.
Cominciare dalla legalità
In un sistema sano dovrebbe bastare l’autocensura dei partiti: una disciplina interna che porta alla candidatura solo di chi non ha scheletri nell’armadio. Purtroppo, però, la selezione della classe dirigente è diventata un azzardo in mancanza di filtri che non siano quelli del consenso potenziale e dell’appeal elettorale. Quindi la giunta sta pensando a controlli che impongano la divulgazione di tutte le condizioni di possibile interferenza tra gli eletti e le loro sfere d’azione. Basterà? Già ora le norme sulla trasparenza e l’anticorruzione impongono la dichiarazione di ogni incarico proprio o dei congiunti in ogni ente pubblico: eppure, nei casi all’onore della cronaca, le maglie della rete si sono rivelate troppo larghe. Debora deve quindi pensare a soluzioni più stringenti e mostrare di avere ‘il coraggio che manca’. Su questi terreni bisogna pensare a essere inflessibili. Ora, se vogliamo essere davvero ‘speciali’ come spesso si dichiara a parole, bisogna cominciare da qui, dalla legalità. Che deve esser rispettata prima di tutto da chi fa le leggi e non deve poterle piegare a proprio uso e consumo.