L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ripropone il tema dei rapporti StatoRegioni in una prospettiva diversa rispetto alle astratte polemiche che spesso infiammano i dibattiti tra centralisti e autonomisti. Il tema della salute, infatti, è particolarmente sensibile e ad altissimo impatto sulla vita quotidiana degli individui ed è quindi un terreno sul quale le criticità del nostro ordinamento si manifestano in modo nitido e immediato. La reazione di fronte alla pandemia ha rivelato carenze dell’apparato centrale, debolezza e inefficacia delle sedi di raccordo centro-periferia, manifestazioni di malessere che il nostro Stato vive da tempo. Si pensi alla sostanziale mancanza di attenzione al versante della profilassi internazionale, che potrebbe apparire inverosimile se si considera l’interconnessione globale; alla scarsa sensibilità nei confronti del diverso impatto territoriale del virus, con una gestione della crisi attraverso decreti a valenza nazionale che rischiano da un lato di penalizzare le Regioni a minore diffusione dell’epidemia, dall’altro di risultare parzialmente inefficaci in quelle a maggiore diffusione; alla difficoltà di coordinamento tra i diversi livelli di governo, che può pregiudicare la tutela del diritto fondamentale alla salute e amplificare le conseguenze già gravi che la crisi sta producendo e produrrà sull’economia.
DISINFORMAZIONE – Tuttavia, come spesso purtroppo accade nel nostro Paese, all’analisi oggettiva con finalità costruttive si preferiscono atteggiamenti superficiali volti perlopiù ad alimentare, nel caso di specie, una retorica antiregionalista irrazionale, disinformata e disinformante, che predica la necessità di un’avocazione allo Stato di tutte le competenze in materia sanitaria, ponendo così una chiara ipoteca sulle richieste di differenziazione formulate da alcune Regioni ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione: il passaggio a un regionalismo sanitario forte costituirebbe un pericolo inaccettabile per l’eguaglianza tra i cittadini. Si tratta di un argomento
chiaramente privo di fondamento logico, dal momento che allora si dovrebbe riscontrare che gli ordinamenti in cui il decentramento è massimo (quelli federali) sono meno garantisti dell’eguaglianza rispetto a quelli accentrati o regionali. Basta pensare a esempi come Germania o Canada per constatare che, invece, sono perfettamente in grado di garantire condizioni omogenee di prestazioni e di assistenza, peraltro con standard di elevata qualità.
COORDINAMENTO – È certo innegabile che il dato emerso in questi mesi è che possono configurarsi situazioni in cui le scelte compiute in campo sanitario da una Regione possono riflettersi negativamente (con conseguenze mortali) su un’altra Regione. È quindi evidente che un coordinamento nazionale ci deve essere. Ma si può dire che le competenze dello Stato siano oggi insufficienti allo scopo? No, perché i titoli di intervento statali ci sono e sono plurimi: basta scorrere, per esempio, i commi 2 e 3 dell’articolo 117 della Costituzione sulla potestà legislativa, l’articolo 118 sulle funzioni amministrative e l’articolo 120 sul potere sostitutivo. E infatti il servizio sanitario italiano assicura l’universalità dell’assistenza su tutto il territorio nazionale. Si può affermare che le Regioni abbiano oggi troppe competenze in materia? No, perché la sanità è un settore nel quale il decentramento è necessario, dal momento che lo Stato e gli enti periferici devono condividere le scelte politiche. L’erogazione dei servizi e la gestione dell’assistenza non possono prescindere dalla dimensione locale: la regionalizzazione è stata la risposta delle istituzioni centrali alla richiesta di maggiore efficienza, trasparenza ed efficacia del servizio sanitario. Il problema è piuttosto che vi sono differenze nell’offerta dei servizi che dipendono da un potenziale economico e di sviluppo e da capacità gestionali che non sono uguali in tutte le aree del Paese. Su questo terreno, al di là dell’intervento repressivo-sanzionatorio statale tramite i piani di rientro imposti ad alcuni servizi sanitari regionali in deficit, l’unico approccio costruttivo praticabile è prevedere procedimenti maggiormente condivisi da Stato e Regioni al fine di creare e consolidare una cultura amministrativa che si riconosca in alcuni principi: in primis quello dell’equilibrio finanziario e della connessa responsabilità.
COLLABORAZIONE – Quindi, non accentramento di poteri, ma procedure e sedi di leale collaborazione tra Stato e Regioni e tra Regioni dove trovare la sintesi tra unità e differenziazione, tra scelte di organizzazione e gestione da un lato e garanzia dei diritti dall’altro, ovvero dove definire il modello di sanità sostenibile. Se un Senato delle Regioni, strada maestra, non pare realizzabile nel breve periodo, un’alternativa ragionevole è data dalla Conferenza StatoRegioni, le cui competenze andrebbero potenziate. Ma risulta chiaro allora che i problemi che la pandemia ha fatto emergere non sono affatto circoscrivibili alla sola sanità, ma sono quelli che affliggono il nostro regionalismo nel suo complesso. Affermare la necessità di un accentramento delle funzioni in materia, sull’onda dell’emergenza in atto, significa commettere – per l’ennesima volta – l’errore prospettico di affrontare un problema non partendo dalle sue cause ma da una delle sue epifanie.
Elena D’Orlando, direttrice del Dipartimento di Scienze giuridiche Università di Udine