Gli ospedali di rete continueranno a lavorare, ma diventerà molto più stretto il loro rapporto con l’ospedale hub mentre anche i piccoli ospedali, ormai declassati, potrebbero presto tornare in attività. Il vicepresidente della Giunta regionale con delega alla Salute Riccardo Riccardi conferma che non sono in discussione gli attuali presidi ospedalieri.
“Il nuovo assetto prevede che tutti gli ospedali di rete continuino a lavorare in stretto rapporto con l’hub. Un ospedale di rete funziona se e in quanto è in collegamento con la struttura principale, per fornire risposte più vicine al cittadino, anche complesse, purché siano programmate. E’ proprio questa la funzione importante degli ospedali di rete: mantenere le prestazioni che hanno sempre garantito e fare un grande lavoro sulla programmazione oltre che sulle urgenze, diventando così strutture capaci di sgravare gli hub. C’è un altro aspetto determinante: dobbiamo lavorare per specializzazione delle strutture di rete. La logica in base alla quale si fa tutto dappertutto non funziona più. C’è bisogno di casistica e di professionisti che sono limitati. Perché l’altro grande problema è il ritardo nella formazione del capitale umano”.
La accusano di voler dare spazio ai privati in sanità.
“Ci sono due grandi questioni da affrontare: quella delle attese, diventata più pesante con la pandemia, e delle fughe. Se si guarda il fenomeno su base pluriennale è evidente che le fughe crescono anche per patologie poco complesse. La gente va dove può curarsi prima. Un sistema come quello Veneto, molto aggressivo e dove il privato accreditato è molto attivo, spiega perché molti lo utilizzano. Ecco perché ho voluto fare l’accordo con i privati cercando di recuperare quei soldi che altrimenti spenderemmo come sistema pubblico per pagare il privato accreditato in Veneto. Si tratta di creare per il privato accreditato nella nostra regione spazi maggiori, allo scopo di limitare le fughe e dunque i disagi. I percorsi di salute devono essere appropriati, ma su questo versante deve essere il sistema a fornire indicazioni corrette”.
E’ in fondo la scelta sottesa anche alla nuova organizzazione sul territorio?
“Certamente. Le case di comunità non sono la riedizione dei vecchi centri di assistenza primaria, ma la creazione di strutture dove lavorino più professionisti a fianco dei medici di medicina generale. E poi ci saranno gli ospedali di comunità per le cure intermedie, capaci di mettere a disposizione 170 posti letto in più. Sono una novità rilevante perché in grado di dare risposte a emergenze come quelle vissute durante la pandemia”.
Saranno riutilizzate strutture non più considerate presidio ospedaliero come Gemona, Maniago o altre?
“E’ possibile, anche perché le cure intermedie diventano il punto centrale della riforma. La programmazione sanitaria deve però essere fatta in maniera seria e da chi ne ha le competenze, evitando di issare ovunque bandiere a difesa di questa o quella struttura. Noi portiamo avanti questa impostazione e vediamo cosa deciderà chi porta avanti la revisione degli standard ospedalieri. Viviamo una società che vive 20 anni in più, ma abbiamo un modello organizzativo che è vecchio di 20 o 30 anni. Le esigenze sono cambiate e stare a discutere della difesa di strutture senza capire che vanno riconvertite per fare altro è un errore che non possiamo fare. E’ una sfida importante che punta sulla prossimità attraverso percorsi appropriati”.