“Ho l’impressione che i politici di oggi facciano spesso discorsi ‘alti’, ma non ‘lunghi’: quelli cioè che guardano oltre il proprio naso. E questa è l’unica nostalgia che ho del passato”. Così Giancarlo Cruder, uomo legato profondamente a un centro che oggi è inconsistente, atomizzato e per niente incisivo. Tarcentino, classe 1947, democristiano doroteo, è stato presidente del Consiglio regionale dal 1994 al 1996 quando fu nominato presidente della Giunta: “Un incidente della storia… non sapevano chi nominare alla guida del Friuli-Venezia Giulia” scherza.
In politica esiste ancora il centro?
“Io sono sempre stato e sono un uomo che ha una concezione ‘mite’ della politica e oggi, guardando alla politica nazionale, mi riesce difficile capire le beghe, i personalismi, gli ondeggiamenti le fughe in avanti, come testimoniano i recenti episodi riferiti a quelli che chiamano ‘responsabili’. Non li capisco, dovrebbe esistere più dignità”.
È tutta colpa del maggioritario?
“Anche, ma non solo. La storia insegna che tutti i due schieramenti politici, centrodestra e centrosinistra, erano formalmente centripeti. In realtà, poi, il ‘centro’, come tale, è scomparso rimanendo solo la sinistra o la destra. In Europa, maggiore stabilità si ha in quei Paesi dove esistono ancora grandi partiti popolari. A titolo di esempio la Germania con la Cdu e la versione bavarese Csu. Purtroppo, oggi da noi la società è troppo frammentata e la capacità di fare sintesi è molto rara”.
Eppure conflittualità, ripicche e personalismi sono sempre esistiti, anche ai vostri tempi. Come riuscivate a gestirli?
“I governi si facevano mettendo assieme le ‘omogeneità compatibili’ e quando si apriva una crisi si sapeva già come andava a finire perché l’indirizzo ideale rimaneva immutato e, semmai, la governance aveva bisogno soltanto di qualche aggiustamento. Alla fine, così, bastava un semplice rimpasto”.
È successo anche a lei da presidente della Regione?
“Ho governato con socialisti ed ex comunisti e non ho mai sentito il fiato delle ideologie sul collo. È stata una esperienza bellissima perché ho trovato persone rispettabilissime, preparate e intelligenti”.
Si è trovato bene anche con l’apparato regionale?
“C’è un ‘prima’ e un ‘dopo’ la riforma Bassanini, quella che ha spostato la responsabilità amministrativa e gestionale dal potere politico a quello burocratico. Molto spesso, però, ha spinto il dirigente o funzionario a non fare nulla anziché rischiare di sbagliare. Credo che dopo molti anni sia giunto il momento di fare un bilancio di questi due modelli di gestione della cosa pubblica per valutarne i rispettivi vantaggi e svantaggi. Penso a un’analisi laica e oggettiva del problema, finalizzata a dare efficienza ed efficacia della macchina burocratica. Altrimenti rischiamo che idee e progetti anche strategici non abbiano la percorribilità amministrativa e quindi restino tali”.
Come si potrebbe porre rimedio?
“In momenti emergenziali quali sono quelli che stiamo vivendo sarebbe utile rileggere l’articolo 1 della legge 546 del 1977 che introduceva una formula molto avanzata e, secondo me, ancora attuale. È la legge della nostra ricostruzione, che affidava alla Regione ampi poteri di autonomia gestionale nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento dello Stato per affrontare la tragicità dell’evento e le istanze emergenti nel territorio”.
La Chiesa in Friuli ha avuto un importante ruolo politico, ma oggi sembra assente. Perché secondo lei?
“È vero, in passato la Chiesa era pronta anche a mettere le mani in pasta, mentre oggi è molto rispettosa dei rispettivi ruoli istituzionali. Il collateralismo è finito da 40 anni. Vedo però che la Chiesa è attentissima ai problemi della società, li segnala e apprezza chi vi provvede senza distinzione di schieramento”.