L’allarme è stato lanciato da tempo, ma la situazione della carenza dei medici di medicina generale sul territorio non sembra avere soluzioni a portata di mano. I numeri non lasciano spaio a dubbi: attualmente nelle aziende sanitarie del Friuli Venezia Giulia risultano attivi 844 medici ‘di base’ (compresi i pediatri di libera scelta). In base ai dati della popolazione significa che ogni professionista ha in carico circa 1.400 pazienti.
Se, però, si guardano i dati anagrafici dei medici, quello che salta agli occhi è il fato che ben 477 potrebbero andare in pensione a 70 anni entro il 2030. Questo porterebbe il numero di assistiti pro capite a superare le 3.200 unità.
“Sarebbe una situazione impossibile da gestire con le strutture attuali – spiega Gian Luigi Tiberio, presidente dell’Ordine dei medici di Udine -, la professione del medico ‘di famiglia’ non è molto attraente per i neo laureati che preferiscono specializzarsi in altre discipline, considerate più prestigiose o più remunerative”.
Le soluzioni per non trovarci tra pochi anni in un imbuto per quel che riguarda la sanità territoriale? “Quella di cui si è discusso recentemente è stata la possibilità di restare al lavoro anche oltre l’età pensionabile, cioè fino al 72 anni. Il tema, però, non mi sembra andato oltre alla proposta. C’è anche l’idea di far lavorare sul campo medici che abbiano terminato il primo anno della scuola di formazione in Medicina generale. Da parte di noi medici di famiglia si chiede piuttosto una riorganizzazione del nostro ruolo. Nell’ipotesi non remota di un aumento del numero di assistiti per ogni medico, sarebbe necessario formare del personale che si occupasse dell’amministrazione di un ambulatorio. Questo sgraverebbe i medici dalle incombenze burocratiche e li renderebbe più disponibili per l’assistenza. Telemedicina e innovazioni tecnologiche potrebbero portare altrettanti benefici e metterci nelle condizioni di svolgere al meglio e con soddisfazione il nostro lavoro”.
Pronto soccorso sotto pressione
Ritmi insostenibili, turni massacranti e rischi professionali non di poco conto. Sono queste alcune delle motivazioni che spingono molti operatori sanitari – medici e infermieri – a lasciare il posto di lavoro nelle strutture pubbliche per lavorare in quelle private. Contemporaneamente i concorsi per assunzioni banditi dalle aziende sanitarie che vanno spesso deserti.
“La grande fuga è un fenomeno che si sta aggravando”, commenta Lorenzo Iogna Prat, rappresentante regionale del Simeu, società italiana medicina d’emergenza e urgenza. “In queste settimane, tra Covid e influenza, gli accessi al Pronto soccorso sono decollati. Il tutto in una situazione di carenza di personale. Oggi fare il medico in emergenza e urgenza non è un lavoro appetibile. I professionisti che mancano sono rimpiazzati in parte (ma a volte anche in toto) da liberi professionisti, assunti attraverso cooperative o con contratti diretti. Le coop non pongono filtri in ingresso e medici non specializzati o senza competenze specifiche vengono messi al lavoro nel pronto soccorso. Si crea così una vera e propria voragine organizzativa: il medico in questione non conosce le dinamiche dell’ospedale, non fa parte dell’equipe, non segue il decorso dei pazienti. Senza contare che i medici ‘a chiamata’ guadagnano molto di più dei colleghi assunti dalle aziende sanitarie, fino a 120 euro l’ora”.
“Sono tutte situazioni che rendono difficile lavorare. Ma la soluzione dei medici ‘gettonisti’ non è efficiente, fa lievitare i costi della sanità e abbassa la qualità di un servizio fondamentale come quello della medicina d’urgenza. E’ necessario invece che i professionisti esperti restino nel sistema. Per farlo bisogna agire su tre leve: la valorizzazione della professionalità, intesa come riconoscimento economico e possibilità di carriera, e l’abbattimento della burocrazia per rendere più fluide le condizioni di lavoro”.