Il caso di Angelina Jolie è una classica situazione medica di difficile interpretazione e giudizio, in quanto le decisioni e i percorsi terapeutici possono essere completamente diversi per ogni singola donna che si trovasse nella situazione dell’attrice. Ponendo che il rischio di sviluppare un tumore della mammella, quando vi sono i geni Brca-1 e Brca-2 mutati, nel corso della vita sia vicino al 90 per cento, se il rischio del tumore e i controlli ai quali la paziente dovrebbe sottoporsi generassero un’ansia eccessiva e, quindi, trasformassero la sua esistenza in una ‘non vita’, allora obiettivamente ci sono dei vantaggi per una mastectomia profilattica.
Se, invece, la donna fosse in grado di gestire questa situazione in maniera accettabile, si potrebbe procedere con controlli periodici (come una risonanza magnetica ogni sei mesi/un anno, evitando così un’eccessiva esposizione alle radiazioni della mammografia), arrivando comunque a una diagnosi precoce nel caso si sviluppasse la malattia e avendo una possibilità di guarigione molto elevata. Peraltro, a mio parere, in situazioni come questa va tenuto conto del giudizio e del parere della paziente con il classico principio del consenso informato. Pur rilevando che la mastectomia radicale non annulla del tutto il rischio di sviluppare un tumore (che rimane intorno al 5%) e richiede comunque un controllo periodico, va anche tenuto conto del rischio che le protesi (da sostituire dopo alcuni decenni) possono comportare nell’organismo dal punto di vista immunologico.
Infine, non va dimenticato che in presenza dei geni Brca-1 e Brca-2 mutati aumenta il rischio di tumore dell’ovaio; se si decide di procedere a ovariectomia in età relativamente giovane, si incorrerebbe in una menopausa precoce, con conseguente rischio di osteoporosi severa. Complessivamente, quindi, il caso Jolie è di difficile valutazione e gestione, ma l’informazione e la decisione della paziente va comunque tenuta in primaria considerazione.