E’ uno dei giganti del jazz contemporaneo, autore di album sorprendenti sin dalla durata (fino a tre ore!), oltre che collaboratore di stelle del rap e del pop. Kamasi Washington sarà martedì 9 al Teatro Verdi di Gorizia per una data esclusiva del suo tour mondiale, ospite del circolo Controtempo per il festival transfrontaliero ‘GoGoJazz’. Accompagnato dalla sua band, il visionario sassofonista proporrà il suo originale mix di jazz e di tutto quello che appartiene alla storia della black music: una musica ‘libera’ sotto diversi punti di vista, come il talentuoso musicista ci ha anticipato in un’intervista esclusiva.
I titoli dei suoi album, come The epic (l’epica) o Heaven and earth (cielo e terra), sono ‘colossali’ come la musica che contengono: è una specie di reazione alla scarsa capacità odierna dell’ascoltatore medio, spesso diseducato dall’approccio immediato dei social, di concentrarsi su progetti che vadano oltre un brano da 3 minuti?
“Da un lato è vero che la gente tende a guardare video di pochi minuti e leggere tweet da poche righe sulla rete, ma ci sono anche quelli che si immergono per ore e ore nella fruizione di diversi tipi di spettacoli: pensiamo alle serie Tv su piattaforme come Netflix, che vengono guardate in forma compulsive anche per ore e ore. Quindi non è vero che ci sia una scarsa capacità di attenzione: solo una selezione nel modo di passare il tempo. La durata è una percezione personale: per qualcuno un brano di 7-9 minuti può risultare corto, per altri magari 2-3 minuti sono già troppi. Io non faccio altro che lasciare la mia musica libera di esprimersi in maniera naturale. Le mie composizioni sbocciano pian piano e la gente che le ascolta non le trova lunghe. I titoli degli album, quindi, non sono altro che una forma di reazione ai nostri tempi e alla nostra società”.
Secondo una visione generale, il rock è morto o sta morendo, il pop è ovunque, ma sovrastimato. Il jazz è rimasto l’unico genere in grado di essere ancora attuale e avere un’evoluzione senza essere troppo legato al passato. Corretto?
“No, non sono d’accordo. Non mi piace generalizzare troppo. C’è anche della pop music molto bella, così come ci sono cose belle e interessanti nel jazz, una parola per mettere tanti musicisti sotto lo stesso tetto, anche se magari poi si esprimono diversamente. Il jazz si è evoluto in maniera naturale perché è un modo di esprimere la propria personalità. Tutto cambia: la gente, le esperienze, il mondo. Noi jazzisti ci esprimiamo diversamente, è vero, ma questo vale in genere per tutta la musica.
La storia dimostra che l’hip-hop, negli ultimi 2-3 decenni, è stato per molti anche un modo per avvicinarsi al jazz, magari grazie a certi suoni ‘campionati’. E’ successo anche a lei?
“Sono cresciuto in una famiglia di musicisti, a partire da mio padre, jazzista pure lui. Ho ascoltato direttamente gli album di jazz, già da bambino, e quando mi sono accorto che molti rapper usavano pezzi musicali suonati in origine da jazzisti, mi ha fatto percepire il jazz come una cosa più alla moda e ‘cool’…”.
Si parla molto di questo ‘revival’ del jazz della West Coast, la costa orientale. E’ solo una definizione inventata dalla stampa di settore?
“Nella West Coast c’è sempre stata grande musica e in particolare a Los Angeles, ma non sempre questo ha avuto la risonanza dovuta. Ora c’è solo più attenzione e arrivano i riconoscimenti ‘ufficiali’: per questo può sembrare una novità al resto del mondo, ma per noi è sempre accaduto. Ci sono sempre stati musicisti grandiosi e forse questa musica sembra ‘nuova’ solo perché finalmente arriva a tutto il mondo”.
Oltre agli album con la band, ha già collaborato con grandi stelle del pop e del rap, da Florence Welch a Kendrick Lamar: che tipo di esperienza è stata?
“E’ stato grandioso: sono tutti musicisti straordinari e dalla mentalità aperta, persone che ti permettono di essere te stesso. Da giovane non ho mai pensato di che avrei potuto suonare con alcuni dei miei idoli, e invece è successo: Herbie Hancock, Snoop Dogg, Lauryn Hill, Chaka Kahn… Da bambino mi sembrava impossibile, eppure sì, sono riuscito a suonare con alcuni dei miei eroi musicali di tutti i tempi”.
La domanda più difficile: cos’è il jazz oggi, nel 2019?
“E’ molto difficile dirlo. La parola comprende un periodo lunghissimo nella storia e tantissime persone. Forse è solo una parola per mettere assieme tanti musicisti diversi, anche se ciascuno è un individuo unico. Potrei fare la domanda opposta e chiedere a te che cos’è il rock o il rap… Non è possibile inscatolare un genere in una sola definizione: per me jazz è solo una parola che puoi usare per la musica che ti piace, è lo spirito della libertà e dell’espressione. E’ una musica nata per comunicare e quando la ascolti senti tutto il suo spirito, anche in musicisti che non vengono immediatamente ricondotti a questo genere. Per me, invece, anche James Brown è jazz…”.