Sarà una prestigiosa anteprima a precedere l’avvio della stagione 2014/2015 del Teatro Verdi di Pordenone: in occasione di pordenonelegge 2014, nella serata di giovedì 18 settembre (ore 21, Teatro Verdi) debutta in prima nazionale “La paura”, di Federico De Roberto, lo spettacolo con cui l’Arca Azzurra Teatro, continuando a indagare i temi della memoria storica e sociale, affronta un testo sulla Grande Guerra a cent’anni dall’attentato di Sarajevo e dall’inizio delle ostilità che hanno portato quattro anni di morte e distruzione in mezza Europa.
Inserito nel percorso “Parole in scena” di pordenonelegge, lo spettacolo sarà proposto in anteprima assoluta durante il festival: l’evento evidenzia il ruolo del Teatro Comunale pordenonese, punto di riferimento e “casa” delle manifestazioni culturali del territorio, ancora una volta partner di riferimento di pordenonelegge. Questa volta attraverso uno spettacolo che approfondisce i temi della Grande Guerra e crea un collegamento molto stretto fra palcoscenico e letteratura.
“La paura” è un testo straordinariamente emozionante e forte, uno dei più belli sulla guerra e non a caso è stato scelto anche da Radio Tre per il programma “Ad alta voce”, i romanzi famosi letti alla radiio, sempre fra i primi cinque nella classifica dei download radiofonici. Proprio in questi giorni la lettura del testo è affidata a Piefrancesco Favino, nell’ambito di una tetralogia dedicata ai cent’ anni della Grande Guerra»,
Rieditato per l’occasione (E/O 2014), il romanzo La paura di Federico de Roberto – autore, fra le tante opere, de I viceré, considerato il suo capolavoro – adattato e messo in scena da Daniela Nicosia, è un racconto di trincea, fulminante spaccato narrativo nel quale si concentrano gran parte delle problematiche legate agli eventi di quegli anni di sanguinosissima guerra, alle sue implicazioni sociali, al suo impatto sulla società italiana del tempo, che proietta la sua ombra fino alla sua attuale composizione, grande specchio delle nostre “diversità” geografico-linguistiche e sociali, delle disparità di ceto, del disprezzo delle alte gerarchie militari per la vita stessa dei semplici soldati, dell’atteggiamento di sospetto e di sfiducia tutt’altro che malriposto e tutto italiano nei confronti dell’autorità.
Un racconto concentratissimo e magnifico con il quale Massimo Salvianti, attore monologante, porta il pubblico nella quotidianità della vita di trincea, su uno dei più inospitali costoni delle Alpi Venete, in mezzo al popolo della guerra, contadini, artigiani, piccoli commercianti che si scambiano battute in dialetti a volte così diversi da sembrare lingue totalmente estranee l’una all’altra, a fare i conti, giorno dopo giorno, con la paura della morte, in un rapporto per ciascuno diverso come e più delle lingue con le quali questo popolo parla.
Tutto è affidato al racconto del tenente Alfani che – in terza persona , “ci fa dono di sé – spiega la regista Daniela Nicosia – della sua umana “fragilità”, dell’umana disillusione nello sgretolarsi di ogni mito, di ogni ideale eroico, di fronte all’evidente portato di insensatezza di ogni guerra. E’ proprio Alfani, l’ufficiale, a mettere in discussione la necessità di obbedire “agli eroi da poltrona”, a quegli ordini assurdi, che condannano quei giovani a morire, senza possibilità di appello, uno dopo l’altro. La certezza della morte li invade, l’umana paura, seppur attraverso mutevoli approcci a quell’indiscusso gesto d’obbedienza, si rivela così quale vera protagonista della novella che, a soli tre anni dalla fine della guerra, nel 1921, non era ammessa alla pubblicazione, su “La Lettura”, il mensile letterario dell’interventista “Corriere della Sera”. Era scandaloso l’atroce finale dell’eroe di guerra o l’implicita condanna del militarismo da parte dell’autore? O forse, sul piano formale, quell’uso realistico dei dialetti, che andava a scontrarsi con quel difficile processo di unificazione linguistica del Regno d’Italia, e col manzonismo che ne era stato strumento? Quell’ antiretorico concerto pluridialettale che caratterizza la scrittura di De Roberto, mentre libera le voci di quell’umanità sofferente, rendendole più vivide e toccanti, espressione di quell’Italia degli umili, frammentata nel gergo, nell’inflessione e unita nel dolore, nel sacrificio estremo? Una cronaca di guerra quindi – conclude la regista – quella di De Roberto, scandalosa nelle forme e nei contenuti, che occhieggia seppur nell’assoluta contemporaneità dell’arredo e del gesto scenico”.