Il 4 maggio partirà in tour, per la prima volta dal 1973 senza la band con cui ha scritto una pagina fondamentale della storia del rock in Italia. Tre giorni dopo, lunedì 7, Red Canzian sarà al ‘Giovanni da Udine’ (biglietti su Ticketone e alle biglietterie del Teatrone) per presentare ‘Testimone del tempo’, il suo nuovo album solista, la ‘seconda’ parte – o terza, calcolando gli esordi prog con i Capsicum Red – di una carriera esaltante, un percorso di due ore e mezza raccontato per musica e immagini.
Tutti si chiedono come sia la vita di Red Canzian senza i Pooh. E se invece la domanda fosse l’opposto, ossia, se nel 1973 la carriera avesse preso strade diverse?
“Ci ho pensato più volte, lo ammetto, ma è impensabile trovare una risposta. Le risposte erano legate al nostro sogno, alle gioie e ai dolori del percorso. E’ imponderabile quello che poteva essere: di sicuro avrei continuato comunque a fare questo lavoro: sono un comunicatore, ho bisogno dell’applauso. A 7 anni salivo sulla sedia in piazza a Jesolo a cantare ’24 mila baci’…”.
Ultima domanda sul passato: c’era il rischio, con questo eterno ‘tour d’addio’ dei Pooh, di diventare una sorta di tribute band di voi stessi?
“Io non sono un nostalgico, il presente è la mia unica certezza. Sono contento che abbiamo chiuso quell’esperienza, perché dopo l’uscita di Stefano e la scomparsa di Valerio (D’Orazio e Negrini, ndr), venivano a mancare due persone base. Il nostro era un discorso troppo personale per affidarci ad altri autori: siamo stati bravi a chiudere alla grande, evitando il rischio di diventare un’imitazione di noi stessi. Non vorrei fare la fine di Mick Jagger, che a quasi 80 anni sul palco è ancora sul palco a sculettare, scimmiottando se stesso: mi mette tristezza. Se devo scegliere, meglio Bob Dylan o Charles Aznavour, con la sua eleganza a 93 anni”.
Questa scelta solista può essere anche un invito alla musica italiana a non rifugiarsi sempre nel passato?
“Assolutamente: oggi la ‘spinta’ e l’esempio mi arrivano dai nuovi gruppi italiani indie. Mi sembra un po’ di rivedermi ai tempi dei Capsicum Red, quando si suonava fino alle 3 di notte per 5 mila lire. Quella era la vera gavetta: sapevamo sempre quale pezzo serviva per accendere o per spegnere la serata”.
Sul palco di questo progetto ci sono solo giovani: Chiara Canzian e Phil Mer, ma anche Daniel Bestonzo, Alberto Milani e Ivan Geronazzo. Però le suggestioni musicali vengono soprattutto dal passato.
“Quando ti ritrovi a partire da solo, devi cambiare. Questo è il mio primo disco ‘da maggiorenne’, senza il conforto della ‘famiglia’ Pooh, anche se ci sono i miei figli. Istintivamente, vai a cercare le prime scintille che ti hanno portato a suonare: nel mio caso, i Vanilla Fudge, i Beatles, insomma il rock, con alcune tracce rilette come citazione storica. Sono ‘Testimone del tempo’ che ho vissuto e lo posso raccontare: lo spettacolo parte con un video del ‘57, un bambino che gira la manopola di una radio e scopre il rock. Ma c’è anche molto altro: l’Ed Sullivan Show, io e Paul McCartney, la ‘scuola genovese’ cantata con mia figlia Chiara, le canzoni di protesta come la nostra ‘Brennero 66’, all’epoca censurata …”.
Col senno di poi: Sanremo serviva?
“Sì: dovevo far sapere al mondo che esisto come cantante e musicista, non solo come ex bassista. E’ un passaggio obbligato per farsi conoscere: ci sono andato senza paturnie, ho dormito bene e l’unico problema è che dopo 4 minuti ti fanno scendere, proprio quando ti sei scaldato e non riesci a raccontarti come vorresti”.
Chi è il destinatario del nuovo show: i vecchi fans o anche gli altri?
“Mi piacerebbe vedere i ragazzi delle scuole di musica, per fargli capire quanto sia importante essere ‘testimone del tempo’ che vivo e ho vissuto. E’ uno spettacolo raccontato con attenzione e filologia, che cerca di far capire ciò che ogni canzone ha rappresentato per ogni singolo momento. Quello che conta è solo il palco: l’unico momento vero per l’artista. Il resto, compresi i discorsi commerciali, non mi interessa proprio”.
In tutti questi anni con i Pooh non c’è proprio nessun rammarico?
“Uno grande. Anzi, proprio una ca*****a: rinunciare a certe offerte dall’estero. Potevamo diventare come gli Abba o Bon Jovi e invece abbiamo detto no a qualcosa che ci avrebbe dato enormi soddisfazioni. Forse eravamo provinciali, immaturi e stupidi. Forse avremmo venduto in tutto il mondo, se fossimo stati inglesi. Però mi accontento e vado avanti”.