No, l’invocazione scaramantica a Woodstock all’inizio – con la proiezione d’epoca degli hippy che sguazzano beati nel fango del festival, sui mega-schermi sistemati sul palco del Campo della Lesa – non è servita a tenere lontana la pioggia. Che è caduta, moderata, per quasi tutto il concerto, e si è scatenata alle 22.30 obbligando la band a interrompere il concerto con un paio di brani di anticipo (a occhio, il ‘bis’ e basta). Ma la musica non si misura dalla durata: e allora diciamo subito che l’ora e 40 senza quasi interruzioni, neanche per gli applausi dei 6 mila spettatori, ha confermato lo stato di grazia di Carlos Santana, lo sciamano della chitarra capace di incantare oggi come 20, 30, 40 anni fa.
Con un anticipo di dieci minuti sulla tabella di marcia, i nove elementi della band salgono sul palco e, nella parte iniziale, rispettano quella che è la scaletta delle ultime date. Il ‘via’ con la storica ‘Soul sacrifice’, un po’ meno psichedelica dell’originale, poi ampio spazio all’ultimo album ‘IV’, da ‘Loves makes the world go round’ a ‘Freedom in your mind’, con il loro gusto soul e r&b tipicamente vintage. La band non è quella della reunion discografica, con Rollie, Schon, Shrieve e Carabello, ma la macchina da ritmo perfettamente oliata (due voci, tre percussioni!) che Carlos ha allevato e rodato negli ultimi anni, impreziosita da una batteria super: quella della moglie Cindy Blackman.
Il sincretismo religioso di origine sudamericana che pervade il chitarrista – che lega Sri Chinmoy, Gesù, John Lennon, Bob Marley e John Coltrane, di cui offre una versione rivisitata del capolavoro musicale e spirituale ‘A love supreme’ – si riflette anche nelle scelte musicali, come sempre eclettiche e in qualche maniera non sempre prevedibili. La base rock è solida e più intensa del solito (sarà per la sua Prs, che sembra una Les Paul goldtop anche nel suono?), il ritmo africano è onnipresente ed esplode nell’antica ‘Jingo’, le citazioni sono infinite (da Morricone a ‘Summertime’, per dire!), le improvvisazioni mai scontate. E fermarsi ad ascoltare quel suono prolungato, sospeso nell’infinito, che solo le sue dita sanno plasmare è un’emozione unica, oggi come in passato.
Santana performer con pochi rivali, ma anche predicatore a modo suo: le uniche brevi interruzioni sono brevi dialoghi col pubblico, richiami – con gli occhi chiusi – a una religione ‘più umana’, che metta al centro il cuore e non la mente, l’immaginazione e non la conoscenza, l’individuo e non le icone. E l’invito al divertimento, il vero miracolo che toglie tutti i mali, trova il suo momento migliore nelle aperture festaiole alle hit latine, ‘Maria Maria’, ‘Corazon espinado’, ‘Smooth’… Quelle in grado di far ballare anche il compassato pubblico friulano e mitteleuropeo che scruta il cielo, giocoforza, con preoccupazione. La sua forza, del resto, sta qui: nel saper cogliere lo spirito della serata e adattare di conseguenza il suo immenso repertorio (magari scontentando quelli che si aspettavano ‘Oye como va’ o ‘Black magic woman’) e nella contaminazione dei generi. In quel mescolare sacro e profano e rileggere il suo passato remoto (‘Evil ways’ è, come sempre, da brividi) senza dimenticare però in che anno siamo.
Poi, quando il suo chitarrista ritmico intona a mo’ di assolo ‘Roxanne’ dei Police (!), seguito subito dalle folgori più forti dal cielo, la notte friulana esige il suo tributo di pioggia battente. Uno sguardo d’intesa con l’amata Cindy, un segnale al resto della band, i saluti di fretta con le gocce che ormai arrivano sugli strumenti e l’emozione si interrompe. Ma il suono della sua chitarra, quel suono, non se ne va: ti accompagna nel lento e umido ritorno a casa. Con la consapevolezza che, sì, ci sono ancora tanti guitar-heroes in giro, ma nessuno in grado di far cantare le sue corde e toccarti nel profondo dell’anima come l’ex ragazzo di Woodstock.
Foto: Luca d’Agostino