Uno stereotipo duro a morire e poi ecco la pandemia. L’emergenza sanitaria ha pestato duro sulle donne, bloccando il lungo percorso sociale, economico e anche culturale che dovrebbe portarle verso la concreta parità di genere. La crisi economica impone licenziamenti, part time involontari o cassa integrazione a zero ore? Prima le donne, ovviamente. Le scuole chiudono e le case di riposo non accolgono? C’è sempre una donna che potrà prendersi cura dei figli o dei genitori anziani, dividendosi tra lavoro e casa. Il danno, però, è per tutti, come spiega Valeria Filì, docente di Diritto del lavoro all’ateneo friulano e delegata del rettore per le Pari Opportunità.
La pandemia ha causato un arretramento delle conquiste fatte dalle donne?
“In un certo senso sì, anche se più che di arretramento parlerei di rallentamento della marcia. La pandemia ha messo in luce le fragilità della nostra società, sotto tanti aspetti, in particolare le debolezze del Welfare e dei servizi volti al soddisfacimento dei diritti sociali. Pensiamo alle chiusure che hanno investito le scuole e rarefatto l’erogazione dei servizi sociali per i disabili e le persone con fragilità. Chi si è occupato di loro? Le donne, rinunciando alla loro attività lavorativa o riducendo il loro impegno professionale. La minor partecipazione delle donne al mercato del lavoro è un segnale di decrescita e involuzione che provoca pesanti ricadute non solo sulla condizione delle stesse donne, ma anche sulle famiglie e sulla società intera”.
Come si combatte la discriminazione di genere? È sufficiente fare buone leggi?
“Le leggi da sole non bastano mai. Le discriminazioni ci sono perché esiste ancora una cultura dominante profondamente sessista. Il modello di riferimento è sempre il maschio bianco eterosessuale cattolico, tutto quello che devia da quel prototipo è suscettibile di essere discriminato. Per combattere le discriminazioni, non solo nei confronti delle donne, bisogna agire sull’educazione e formazione delle persone giovani e meno giovani, bisogna trasmettere buone prassi e dare modelli positivi di inclusione delle diversità. Serve, però, anche il bastone: le condotte discriminatorie non vanno sminuite e trattate in modo benevolo o paternalistico, ma vanno severamente punite perché altrimenti passa il messaggio che le norme, queste norme, sono derogabili in quanto poco importanti e quindi si può farla franca… e questo messaggio è sbagliato”.
Perché il tasso di lavoro femminile incide sul livello di natalità?
“Perchè il cambio di valori e cultura degli ultimi cinquant’anni ha portato le donne a voler essere prima lavoratrici, economicamente autonome e realizzate come persone e poi, eventualmente, madri. In altre parole, oggi fa figli la donna che ha un lavoro e una sicurezza economica, non la donna che non lavora. La difficoltà di entrare nel mercato del lavoro e di restarci con contratti che danno stabilità porta i giovani e in particolare le giovani donne a rinviare la scelta riproduttiva, con le conseguenze che vediamo: un tasso italiano di natalità tra i più bassi al mondo, nonostante il prezioso, ma insufficiente, apporto delle donne straniere immigrate. Un Paese senza figli è un Paese senza speranza”.