Non è la prima volta che la scuola affronta situazioni emergenziali anche se non di tale dimensione. Nel primo decennio del ’900 il Comune di Udine dovette fronteggiare una estesa presenza di bambini tricofisici, una malattia del cuoio capelluto, che impediva la frequenza scolastica a decine di minori dei ceti più poveri a causa dalle cattive condizioni di igiene abitativa e familiare. L’amministrazione comunale decise di non abbandonarli e creò una scuola specifica per loro della durata biennale, fino alla scomparsa della malattia. La stessa amministrazione, guidata da un eccellente direttore generale, Luigi Pizzio, si mosse in aiuto di circa sessanta bambini gracili a potenziale rischio di tubercolosi e per questo non frequentanti la scuola. Seguendo il dibattito internazionale, abbracciò l’innovativa idea di aprire per essi una scuola all’aperto, cioè senza aule. Eresse un padiglione sul pendio del Castello di Udine negli orti di Palazzo Bartolini e organizzò intorno a esso un parco alberato dove i bambini con banchi mobili seguivano le lezioni all’aria aperta. Si applicò una didattica differenziata con lezioni brevi, attività pratiche, passeggiate e si fornì una alimentazione arricchita. Un comitato pedagogicosanitario seguiva e monitorava periodicamente il benessere psico-fisico di ogni bambino. L’esperienza durò un decennio dal 1921 al 1931. L’altra emergenza friulana fu causata dall’invasione austrotedesca del 1917, dopo la rotta di Caporetto, che causò l’esodo di oltre 130.000 persone. Il loro ritorno avvenne nel 1919. La condizione degli edifici scolastici risultò disastrosa; persino i banchi erano stati bruciati, per cui le lezioni iniziarono nel mese di maggio e si conclusero a luglio. Tre mesi di scuola furono considerati insufficienti per riconoscere agli alunni il raggiungimento dell’adeguata preparazione culturale richiesta di norma; fu deciso, senza alcun problema, di ‘rimandarli’ tutti, cioè di far loro ripetere l’anno per recuperare gli apprendimenti necessari.
UNA STORIA DIVERSA – Oggi di fronte all’emergenza dovuta all’epidemia di coronavirus, che ha sconvolto la vita sociale complessiva, la scuola e tutte le altre istituzioni educative sono state chiuse per limitare il pericolo di contagio. A differenza delle esperienze storiche precedenti, tutta la vita sociale e produttiva è stata bloccata imponendo forti limitazioni alle libertà individuali e sociali, con conseguenze non solo economiche ma anche psicologiche, affettive e relazionali. La scuola è stata chiamata a ‘non fermarsi’ e si è prima invocata e poi imposta la ‘Dad’, cioè la didattica a distanza. Sicuramente positiva l’intenzione di non abbandonare i ragazzi, di non lasciarli soli mantenendo vivo il rapporto con le istituzioni educative e scolastiche; l’obbiettivo preminente però è stato quello di continuare il processo di insegnamento-apprendimento che, da subito, fu giudicato eccessivo. Non c’era altra alternativa che far attivare la didattica a distanza a una scuola che stentatamente praticava la didattica digitale. Va detto che la vera innovazione è quest’ultima che affianca ad ambienti fisici quelli virtuali, utilizza strumenti analogici (quaderni, penne…) e strumenti digitali e in cui le relazioni fra docente e studente sono in presenza ma proseguono in rete, dove accanto al libro si aprono le biblioteche virtuali e i musei virtuali, i motori di ricerca, le basi di dati e i siti scientifici di tutto il mondo. La formazione digitale richiede un’azione di rinnovamento organizzativo, strutturale e metodologico dell’intero sistema scolastico non l’improvvisazione.
DOCENTI IN TRINCEA – C’è stato uno sforzo volontaristico dei docenti apprezzabile, ma caratterizzato dall’italico arrangiarsi, in mancanza di una piattaforma pubblica nazionale per la Dad. Si è visto di tutto, dall’utilizzo dei più disparati dispositivi digitali a quello delle più svariate applicazioni. In molti casi i docenti hanno riprodotto in video (Skype) la classica lezione frontale senza aprirsi a nuovi ambiti e mezzi di apprendimento. Le pratiche di ‘classi capovolte’ in cui lo studente ricerca e poi si confronta sono state rarità. Non sorprende che certi ragazzi di scuola media abbiano vissute le lezioni a distanza come qualitativamente inferiori a quelle abituali, per la mancanza di collaborazione con i compagni, di cooperazione di gruppo e per la difficoltà di porre facilmente domande agli insegnanti. Hanno lamentato anche la difficoltà a concentrarsi su lezioni telematiche, probabilmente costruite sul modello frontale.
L’OSSESSIONE DEI VOTI – Una ossessione, dettata dai dirigenti burocrati, è stata quella della valutazione formale a ogni costo, per poi scoprire che “nessuno perderà l’anno”. Nelle scuole secondarie di primo e secondo grado gravissima è stata l’assenza di strategie per l’inclusione dei ragazzi con disabilità, di coloro che presentano bisogni educativi speciali e degli immigrati. Questi sono diventati invisibili. Il grido di dolore delle famiglie è risuonato come non mai. Allo stesso modo la didattica a distanza non ha raggiunto oltre un milione e mezzo di ragazzi privi di dispositivi o in luoghi, anche in Friuli, dove la rete non giunge o dà risultati scadenti. Consegnare a una famiglia un computer in comodato non vuol dire ch’essa sia o diventi competente nell’uso. Malgrado tutto ciò l’esperienza è stata vissuta positivamente e presa seriamente dai giovani in procinto degli esami di maturità e ha fatto compiere, comunque, un passo avanti al sistema scolastico. Certo che non auspico un settembre scolastico con la Dad, ma l’avvio di una scuola che potenzi la didattica digitale dotandosi di docenti formati e tecnologia all’altezza del compito.
CONTRO NATURA – La didattica a distanza nelle scuole primarie e dell’infanzia non poteva ripetere le stesse logiche delle scuole secondarie. Non si può costringere un bambino a stare per tempi prolungati davanti allo schermo. Le famiglie sono state chiamate a responsabilizzare i bambini a prestare attenzione, a seguire il calendario delle lezioni, a farli partecipare e a eseguire i compiti. È noto che lo svolgimento dei compiti scolastici genera facilmente conflitti tra figli e genitori, danneggia la loro relazione affettiva e può incidere negativamente nei processi di autostima dei ragazzi. La Dad deve evitare che il genitore si trasformi, impropriamente, in un docente e ciò accade se la proposta didattica non è affrontabile autonomamente dal ragazzo perché non correttamente formulata. Inoltre per bambini dai 6 ai 10 anni vi è la reale impossibilità di accesso alla Dad e ciò comporta che il genitore deve restare al fianco del figlio per tutta la durata delle lezioni, complicando la vita di famiglie con più figli o con altre incombenze che l’orario scolastico ignora, senza dire che inevitabilmente il genitore finisce per interferire nel processo didattico, con la netta disapprovazione dei docenti. Molte maestre hanno compreso che a livello di primaria e infanzia la Dad doveva garantire il contatto e la relazione, attrarre e stimolare l’interesse. Anche a livello primario i bambini hanno manifestato ed espresso la nostalgia della scuola, delle maestre e dei compagni. La comunità reale nei bambini vince quella virtuale.
Didattica a distanza: “Scuola (reale), quanto mi manchi!”
"La formazione digitale richiede un’azione di rinnovamento organizzativo, strutturale e metodologico dell’intero sistema scolastico non l’improvvisazione"
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