Il mondo accademico si interroga su quello che sarà di lui dopo la pandemia. L’obbligo di distanziamento sociale e, la conseguente, didattica a distanza di massa hanno rimescolato le carte, non soltanto nella modalità di rapporto tra docenti e studenti, ma nella stessa organizzazione accademica, nei programmi, nelle infrastrutture tecnologiche e perfino nell’uguaglianza sociale. Su questo si stanno interrogando numerosi docenti e dirigenti accademici. Alcuni rettori, ex rettori e presidi di università italiane e straniere hanno formato un laboratorio di idee; tra loro Alberto Felice De Toni, già ‘magnifico’ dell’ateneo friulano e tuttora presidente della Fondazione della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (Crui), il rettore della Libera Università di Bolzano (Lub) Paolo Lugli e Stefano Cesco, docente di Basiliano e già preside della Facoltà di Scienze e Tecnologie della Lub, che ci spiega i risultati raggiunti e appena presentati al Forum 2020 dell’Associazione delle Università Europee della Scienze della Vita.
Che impatto ha avuto la pandemia?
“Il settore dell’istruzione e della formazione, inclusa quella universitaria, è stato uno dei primi a essere influenzato dalle strategie di isolamento e di distanziamento sociale messe in atto dai diversi governi per limitare la diffusione del Coronavirus. Secondo i dati Unesco, nell’aprile scorso, scuole e università sono state chiuse in 191 Paesi e queste misure hanno colpito oltre 1,5 miliardi di studenti, cioè il 90,2% del totale degli studenti iscritti”.
Come hanno reagito le università?
“Il sistema universitario ‘tradizionale’ non era preparato a questi cambiamenti; ad esempio, non era disponibile alcun piano per un massiccio passaggio all’insegnamento online. Dopo una fase iniziale, volta a capire se il blocco durava solo poche settimane, la maggior parte delle università ha sostituito l’insegnamento in classe con quello online. Nella maggior parte dei Paesi, tra cui il nostro, i sistemi di higher education hanno reagito in modo estremamente rapido ed efficace con poche o nessuna risorsa aggiuntiva. Nei mesi ‘caldi’ dell’emergenza sono stati probabilmente fatti più progressi nell’insegnamento online che negli ultimi 20 anni. A titolo di esempio, secondo un’indagine condotta dalla Crui, l’88% dei corsi delle università italiane sono stati offerti online e la metà delle università italiane ha offerto il 96% o più dei propri corsi online nel secondo semestre dello scorso anno accademico”.
A cosa serve il vostro lavoro?
“Anche se non siamo ancora usciti dall’emergenza sanitaria, ci è sembrato utile iniziare a riflettere sulle problematiche che si sono verificare nella didattica online ma anche sugli aspetti positivi di tale modalità didattica in modo da fare tesoro di quanto appreso e poterlo sfruttare per migliorare la qualità della didattica in futuro, quando entreremo nella nuova normalità. Abbiamo creato il laboratorio di idee, al quale partecipano oltre a De Toni e Lugli, anche Guido Orzes, dottore di ricerca all’Università di Udine e oggi docente della Lub, e altri colleghi italiani e stranieri. A nostro avviso, ci sono cinque aspetti che meritano di essere considerati in questo contesto: aspetti pedagogici, cioè cosa insegnare; aspetti relativi all’organizzazione delle attività didattiche, cioè come insegnare; software di e-learning, cioè quali strumenti di supporto utilizzare; infrastruttura di rete e dispositivi hardware; aspetti legati alla diversità e inclusività, ovvero come non lasciare nessuno studente indietro, perché per esempio è di una famiglia indigente o ha problemi personali”.
A quali conclusioni siete arrivati?
“Partiamo con gli aspetti pedagogici. Alcune competenze non sono facili da insegnare online. Questo vale in modo particolare per i programmi tecnico-scientifici quali quelli agrari o ingegneristici, in cui le attività pratiche, per esempio di laboratorio, sono fondamentali per fornire agli studenti tutte le competenze necessarie. Inoltre, alcune attività di ricerca sono state completamente interrotte durante le fasi più gravi dell’emergenza e sono state successivamente influenzate in modo significativo dalle misure di distanziamento sociale. Questo pone un’altra importante domanda: com’è possibile mantenere il legame tra ricerca e didattica, che è alla base della formazione di frontiera tipica delle università ‘tradizionali’? Un altro aspetto importante per l’insegnamento online riguarda l’organizzazione, o meglio la riorganizzazione delle attività didattiche. Durante l’emergenza, a causa del limitato tempo ma anche della mancanza di piani per l’insegnamento online, la maggior parte delle università ha trasformato le lezioni in aula in lezioni online sincrone, cioè in streaming, o meno frequentemente in lezioni asincrone. L’adattamento dei contenuti, dei materiali, delle metodologie, dei linguaggi, delle attività e dei formati didattici è stato lasciato principalmente all’iniziativa di ciascun docente. Ma è sufficiente tutto questo nel medio-lungo termine per garantire un’istruzione superiore di alta qualità? O è invece necessario ripensare e ridisegnare i programmi di studio? Inoltre, i programmi di studio e i curricula potrebbero richiedere un aggiornamento anche in considerazione della crescente importanza di alcune materie e competenze, ad esempio offrendo a tutti gli studenti corsi di base facoltativi o obbligatori in materia di salute e sicurezza, oltre a rafforzare l’offerta didattica sulle tecnologie digitali e sulle pratiche organizzative per lo smart working e la sicurezza sul lavoro”.
Avete trovato altri ostacoli?
“Gli esami online sono forse più critici dell’insegnamento. Come garantire che gli studenti non copino? Esistono alcuni software e alcune università li hanno testati durante l’emergenza Covid-19. Tuttavia, in questo campo sembra siano necessari ulteriori sforzi per acquisire maggiore esperienza”.
Gli studenti sono pronti a questa rivoluzione?
“Gli studenti lo sono più dei professori. Attualmente ci troviamo in una situazione in cui gli ‘immigrati digitali’, ovvero i baby boomer come me e le generazioni X e Y, insegnano ai nativi digitali della generazione Z. I docenti hanno quindi bisogno di essere adeguatamente formati e sostenuti per l’uso più efficace degli strumenti didattici online”.
La dotazione tecnologica è sufficiente?
“A livello di rete la situazione è notevolmente migliorata negli ultimi anni, ma rimangono zone scoperte o mal servite. Per quanto riguarda, invece, l’hardware i telefoni cellulari che tutti abbiamo non sono certamente una soluzione ottimale per l’e-learning, mentre all’interno delle famiglie la presenza di pc o computer portatili potrebbe non soddisfare l’esigenza di tutti i componenti che magari in contemporanea devono seguire lezioni in e-learning e operare in smart working. Tutti questi fattori potrebbero penalizzare gli studenti di famiglie a basso e medio reddito, vanificando l’aspirazione più nobile dell’alta formazione: quella cioè di essere aperta e inclusiva e di consentire ai giovani di salire la scala sociale ed economica. C’è poi un altro aspetto che merita essere sottolineato: in questo processo evolutivoadattativo in corso le università tradizionali non devono trasformarsi in università telematiche del futuro! Sarebbe un grave errore. Devono invece innovare la loro triplice missione (didattica, ricerca e terza missione), anche utilizzando le possibilità offerte dal digitale, per migliorare e potenziare la propria offerta senza però rinunciare alla loro identità e alle loro tradizioni di ricerca di frontiera e di didattica in presenza. L’esperienza nel campus universitario, basata su rapporti diretti professorestudente e studente-studente, gioca un ruolo determinante per una formazione completa della figura del professionista del domani”.
Quindi, la futura università sarà solo per i figli dei ricchi?
“Da un lato, potremmo dire che l’insegnamento online è più inclusivo in quanto permette anche agli studenti che lavorano, agli studenti-genitori e a quelli che vivono in zone remote di frequentare le lezioni. Dall’altro lato, c’è però il rischio che le disuguaglianze economiche, di classe e di supporto tra gli studenti aumentino. Inoltre, c’è un ulteriore aspetto: la pandemia ha creato e consoliderà un crollo della mobilità internazionale degli studenti, penalizzando importanti esperienze di studio e anche di confronto culturale all’estero. Tutti questi aspetti richiedono indubbiamente un’attenta analisi e monitoraggio, da parte degli organi di governo accademici e non, per le opportune e tempestive scelte politiche e azioni. È infatti in gioco il futuro dell’alta formazione universitaria e della sua più nobile aspirazione a essere aperta a tutti e inclusiva”.