Sono sicura che, ovunque vi siete trovati, alla notizia che venite dal Friuli qualcuno si è avvicinato per dirvi: “Oh, in Friuli ho fatto il militare e mio nonno da giovane ha fatto la guerra. W la classe!” Così, anche nel paesino più lontano, mescolando nostalgia per sé e gentilezza per voi, una persona mai vista prima può aver iniziato a raccontarvi di luoghi che conoscete e poi di episodi con i compagni di camerata. Ecco, questo è esattamente il tipo di situazione in cui la Storia scappa via dai compassati libri di testo per parlarvi con la voce di altri protagonisti dell’identità della nostra regione. Dalla fine della Seconda guerra mondiale fino al crollo del muro di Berlino, infatti, quassù sono arrivati e partiti migliaia di giovani italiani. Sembra che solo negli ultimi 40 anni della leva obbligatoria, abolita nel 2004, 2 milioni di reclute abbiano letto sul foglio di destinazione il nome di uno dei nostri paesi.
A raccontarla bene è una Storia molto social che può far venire i lucciconi agli occhi, ma è soprattutto una Storia tanto politica da riproporsi dopo anni come un nodo da sciogliere.
Non è un mistero che una delle aree più a rischio di errori progettuali e logiche di profitto sia quella dei siti militari dismessi che costellano la regione dalla montagna al mare. Si tratta di migliaia di ettari di terreno dove caserme abbandonate, capannoni dai tetti sfondati, magazzini ormai inutilizzabili o terreni liberi aspettano un piano di riconversione.
Se ne discute troppo poco a porte aperte da quando nel 2001 è iniziata la fase della ‘cartolarizzazione’. Inventata per cedere a usi civili parti di territorio prima gestito in forma esclusiva e in segretezza dal Ministero della Difesa, la cartolarizzazione è uno strumento per trasferire agli enti locali la proprietà di immobili e terreni. Ma, alla luce dei fatti, l’espressione più corretta sarebbe ‘scaricare’ alle comunità locali problemi insostenibili per costi di smaltimento di materiali residui e per la finale destinazione d’uso. La militarizzazione della regione è stato un processo molto complesso sul piano della convivenza di interessi che rischiavano di essere contrapposti se la politica non avesse continuamente cercato contropartite, compromessi e mediazione. Dopo la Prima guerra mondiale Mussolini in nome della conquista vittoriosa aveva deciso di realizzare il Vallo alpino del Littorio e di difenderlo a settori con un grande dispiegamento di fortificazioni fisse lungo la frontiera carnico-cadorina verso l’Austria e la frontiera jugoslava fino a Postumia e Fiume. I comandi e gli uffici stavano ovviamente a Udine e a Trieste negli anni.
Negli anni del secondo dopoguerra, con il Patto Atlantico, l’assetto difensivo assumeva un altro raggio d’azione. Fino agli anni Cinquanta mirava soprattutto a contenere una improvvisa aggressione jugoslava. Tutta la regione veniva coinvolta quindi nei programmi delle infrastrutture sulla fascia confinaria a est. Ma negli Anni Sessanta i criteri di difesa della Nato provocavano una stagione di nuove costruzioni, con un potenziamento difensivo adatto al conflitto atomico. Le fortificazioni cambiavano in superficie e in profondità, rappresentavano una visione territoriale basata su più ordini di capisaldi e sul criterio della ‘dilatazione’. Alle caserme urbane di vecchia tradizione si aggiungevano nuove caserme nei centri minori, come Tricesimo, Remanzacco, Brazzano, Villa Vicentina… per alloggiare corpi di fanteria d’arresto o di mezzi corazzati. Poi, alla fine degli Anni Settanta, arrivava la nuova dottrina Nato volta a cambiare ancora: difesa organizzata con uno strumento snello basato solo su tre corpi d’armata e tre divisioni meccanizzate e corazzate.
Nel 1989, caduto il muro di Berlino, con l’inizio delle crisi politiche negli Stati ex sovietici arrivava anche la fine della vecchia strategia atlantica continentale. Nasceva l’idea di un esercito di interforze da spostare sui fronti extranazionali, supportato da nuove politiche industriali e territoriali. Fine della storia.
È un fatto però che nel 2000 tutta questa costruzione della frontiera militare sul confine orientale d’Italia diventava una scomoda eredità. Quanto scomoda per grandi o piccole amministrazioni locali, già in crisi demografica e di sviluppo economico, solo uno studio poteva dirlo.
“Un paese di primule e caserme” è al momento il lavoro più stimolante di cui disponiamo in tal senso. Condotto tra il 2008 e il 2017 da un’equipe di professionisti sotto il coordinamento dello studio Corde di Venezia, è uno studio attendibile sulle ipotesi di riconversione, reso pubblico, con Cinemazero e Tucker film, attraverso un docu-film e un libro che hanno fatto il giro della regione. Guardo il sito e trovo le basi del ragionamento progettuale con una mappa interattiva che riceve aggiornamenti. La valutazione del sistema militare e le sue tracce storiche è limpida, la mappatura delle aree abbandonate – al momento 285 – è basilare per comprendere quali valori oggettivi stanno a monte degli scenari di riconversione. Valori architettonici, paesaggistici o connessi al sistema territoriale realizzato dall’Esercito.
Contatto Alessandro Santarossa, l’architetto ideatore della ricerca, testata una prima volta per una sua tesi di dottorato internazionale sull’identità europea. “Partivamo da una convinzione data per certa – mi racconta – vale a dire l’alta competenza di pianificazione del territorio da parte del sistema militare, e volevamo capire quale riconversione fosse un volano di sviluppo economico, culturale e sociale oggi. Così abbiamo iniziato a identificare i principali siti e a classificarli nel sistema”. Questa catalogazione, che riguarda circa la metà dei principali insediamenti dismessi, è stata sufficiente per dimostrare che la regione presenta un caso di addensamento e stratificazione di strutture militari unico in Europa e che il sistema realizzato dallo Stato aveva comunque sostanziali difetti nella pianificazione integrata.
Le ipotesi di riutilizzo comunque restavano valide seppure da ricalibrare sul dato di realtà. “Volevamo contrastare il destino di lenta scomparsa e di rinaturalizzazione non controllata – continua Santarossa -. Secondo noi le comunità locali avrebbero avuto bisogno di una pianificazione regionale di sostegno e abbiamo provato a individuare tre direttrici applicabili a un territorio così vasto: l’uso turistico e di narrazione di memoria (in questo caso la storia della leva obbligatoria meriterebbe uno spazio… vero?), come è stato fatto in altri Paesi per siti di alto interesse storico nazionale; la riconversione energetica (solare e di trasformazione delle biomasse); l’utilizzo per l’housing sociale, cercando di individuare i siti più idonei”. Santarossa mi fa vedere la ricchezza delle soluzioni e mi richiama al rischio di valutare in modo superficiale e per pura moda alcune soluzioni e tendenze.
“Non esistono scenari univoci, anzi, lo studio del sito specifico aiuta l’ottimizzazione del riutilizzo, ma serve una visione complessiva e a lungo termine, avere le spalle larghe ed essere disposti a cambiare nel corso d’opera perché alcune situazioni di partenza possono mutare”. Cita poi il difficile caso di Arzene e i prerequisiti del sito del Comune di San Giovanni al Natisone, un’ex polveriera diventata un’enclave naturalistica di preziosa biodiversità. Le argomentazioni sono di ampio respiro e alla fine mi convinco che tutta l’operazione di riconversione è un’occasione per una politica alta su un treno in corsa.