Si stava meglio quando si stava peggio, recita un antico adagio popolare. Sarà per questo che da quasi un ventennio tutti, o quasi, abbiamo deciso – più o meno consciamente – che il futuro sta nel passato. Ossia che quello che abbiamo vissuto, o soltanto sfiorato, o conosciuto per interposta persona, è sicuramente migliore di un presente caotico, indefinibile, senza chiavi di interpretazione.
Nostalgia, nostalgia canaglia, tanto per citare un brano d’epoca. Per contraltare, riportiamo allora anche una definizione colta del sociologo e filosofo Marshall McLuhan, famoso per la sua teoria sui media, che già 50 anni fa scriveva: “Una delle caratteristiche essenziali della perdita di identità è la nostalgia, il revival dell’abbigliamento, delle danze, della musica e degli spettacoli. Viviamo grazie ai revival. Ci dicono chi siamo, o per lo meno, chi eravamo”.
Tutto, insomma, ruota attorno al concetto che ‘ieri’ era meglio, magari anche l’altro ieri. Ogni aspetto della nostra società contemporanea ‘post-qualcosa’ sembra confermare questa tesi. La musica che ascoltiamo è il rifacimento di quella del passato, al cinema e alla Tv passano i remake di film e telefilm di culto, la moda vive di perenni spunti vintage, persino le culture giovanili si affidano a nomi del passato (uno su tutti: gli hipster). Un meccanismo psicologico che si verifica in realtà a intervalli regolari almeno dalla fine degli Anni ’70, quando a essere ‘rimpianti’ erano stati i ’50 – o meglio, una forma idealizzata di quel decennio.
Tutti i revival successivi si sono verificati a distanza di un ventennio dall’epoca ‘riesumata’: il tempo giusto, insomma, per maturare, trovare un lavoro, farsi una famiglia e… rimpiangere i tempi in cui non esistevano preoccupazioni. L’ossessione per il passato è diventata così una specie di nuova forma per vivere il presente, dimenticando anche certi obbrobri. Tutto, o quasi, è stato sdoganato nel nome di un ricordo, o solo dell’ombra di una memoria, magari vissuta di riflesso, ritenuta comunque migliore rispetto al caos odierno.
Il perché è evidente, almeno secondo sociologi e analisti. Per evitare le difficoltà, l’apparente semplicità del passato è una coperta di Linus che, lo abbiamo detto, fa dimenticare anche l’orrore degli abiti color fluo, le spalline nelle giacche, i tagli di capelli asimmetrici e unisex, le sopracciglia femminili esageratamente folte (sono tornate!), le stoffe sintetiche che sudano solo allo sguardo, i beveroni colorati indefinibili, piatti come le penne vodka e salmone… Dobbiamo andare avanti? Meglio di no…
La mancanza di originalità del presente e quello sguardo costantemente rivolto verso il passato, alla ricerca di un faro che illumini la via come una mirroball da discoteca d’antan, rischia di diventare eterno, perché il passato cui attingere non finirà mai. Semplicemente, troverà nuovi modi per essere rivissuto. L’unico problema è quello numerico, perché se oggi gli Anni ’70-’80 sono letti complessivamente come l’epoca di una collettiva festa in discoteca (e non era così: c’erano il terrorismo, la lotta politica nelle strade, l’inflazione a due cifre…), è anche perché i 20 enni festaioli (ma non tutti) di ieri sono diventati i 40-50-60 enni di oggi.
E sono, soprattutto, la categoria numericamente più presente in Italia e in Friuli, oltre che quella con la miglior disponibilità economica (o gli unici?) per permettersi il ‘lusso’ di rivivere il passato, riacquistare il capo d’abbigliamento, il disco o il film che un tempo li ha resi felici. O almeno, così ricordano, ehm, ricordiamo.