A guardarlo sulla mappa del Centro America, il Belize sembra un apostrofo incastonato tra Messico e Guatemala. Con negli occhi ancora impressi i gioielli Maya di Tikal nel confinante Guatemala, si accede in questa piccola nazione con uno strano senso di appagamento culturale. La tentazione di tirare dritti fino a raggiungere la costa caraibica e salpare verso una delle molteplici isole coralline, che la natura ha regalato a questa nazione, è forte. Ma la prima cittadina, San Ignacio, una decina di chilometri dopo la frontiera, invita a rallentare. La popolazione creola è in tripudio e sparge una caotica allegria lungo le sponde frondose del fiume Macal. Due vecchietti cinesi hanno in gestione la rivendita di alcolici e, protetti dietro sbarre di metallo di cinque centimetri di diametro, hanno il loro bel da fare a tenere a bada due ragazzotti dai fisici atletici, con splendide meduse rasta, il livello alcolemico nel sangue piuttosto elevato e il desiderio di ricevere della birra fresca a credito.
Se l’etnia cinese sembra avere in mano tutte le attività commerciali, il comparto agricolo è affare dei mennoniti. Sulla strada che porta verso oriente una carrozza con sopra due contenitori per il latte trainata da uno splendido cavallo dal pelo brillante e dall’andatura regale si materializza come per magia; sembra uscita da un’epoca passata. Il marcantonio che la guida ha i tratti germanici, barba lunga e boccoli castani che balzellano al ritmo dell’irregolarità dell’asfalto. Come sono giunti fino a qui? La risposta è contenuta in un brevissimo riassunto delle peregrinazioni dei suoi avi. Prussia occidentale, impero Russo, attraversamento dell’Atlantico e arrivo in Canada (Manitoba) e, infine, si giunge al 1959 anno in cui tremila mennoniti acquistarono 40.000 ettari di terra lungo il fiume Hondo che segna il confine tra Messico e Belize. Per l’agricoltura, l’allevamento, i prodotti caseari e la lavorazione del legno, qui ci si deve rivolgere a loro. Dopo il saluto baritonale del gigante mennonita giunge Belmopan: la capitale. Tredicimila anime, un paesotto elevato a capitale dopo che nel 1961 la vera capitale, Città del Belize, fu danneggiata dall’uragano Hattie. Non fosse per una strana concentrazione di uomini in giacca e cravatta e donne in abiti eleganti che si muovono tra edifici ‘grigio burocrazia’ e la presenza di qualche ambasciata e consolato, nessuno crederebbe di essere giunto nella capitale. Verso sud l’autostrada dei colibrì lambisce i monti Maya ghigliottinati da nubi che lentamente scendono verso la costa. Dangriga, con il suo mare splendido, l’atmosfera da cittadina dilapidata e la folta comunità Garifuna a popolare le strade polverose, giunge dopo vaste piantagioni di agrumi. Da questo punto verso sud si srotolano chilometri che lambiscono un mare dalle tonalità turchesi e verdognole. Un luogo in grado di sequestrare chiunque sia alla ricerca del posto perfetto per sparire da una vita fatta di ore scandite da fitte giornate lavorative e bollette da pagare. Case di lusso poggiate su spiagge oniriche, dimostrano che qualcuno ha già fatto il salto verso questo flemmatico paradiso belizeano e spesso hanno passaporto statunitense o canadese.
Furie piovasche e ripari di fortuna sulla via per Città del Belize. I chilometri che separano Belmopan dalla vecchia capitale sono soporiferi, solo l’idea della meta da raggiungere rivitalizza lo spirito. Un cimitero dalle tombe colorate, abitazioni di legno tinto e ammuffito, voci creole che si librano nell’aria calda e umida di metà pomeriggio danno il benvenuto a chi giunge da occidente. Si batte la cittadina in lungo ed in largo a caccia di storia e di vita vera. Un paio di ore con Kevin, uno storico creolo in pensione, e ci si scorda che lì davanti in mezzo a quel mare che di sera diventa color melassa ci sono le famose isole coralline tanto agognate da chiunque venga in Belize. E cosi si rendono necessari più giorni. Non male per essere solo un apostrofo.
Paolo Zambon è l’autore di due libri “Inseguendo le ombre dei colibrì” e “Viaggio in Oman”