Un sole allo zenith tiene compagnia lungo la discesa dal monte Jebel Barkal nei pressi di Karima, nord Sudan. È l’ultimo giorno dell’anno e la meta finale è Meroe, antica capitale del regno di Kush famosa per le sue antichissime piramidi. Quattrocento chilometri circa da qui.
“No, l’ultimo minibus per Atbara è partito un’ora fa” dice un signore in sovrappeso sudato come un maratoneta all’ultimo chilometro.
Non rimane che ricorrere all’autostop. Con lo zaino poggiato su una roccia e la lingua d’asfalto che si fa largo in un ambiente di rara desolazione, si attende con pazienza che qualche buon uomo si degni di offrire un passaggio allo straniero ritardatario. La presenza del fiume Nilo, distante qualche centinaio di metri, pur non essendo visibile consola in mezzo al nulla arido e polveroso.
Un furgoncino, il primo mezzo che passa dopo venti minuti di attesa, fa cenno che non va nella mia direzione e che girerà presto in una pista polverosa. Non passano più di cinque minuti che una Peugeot sgangherata accosta. Alla guida un uomo sui cinquant’anni vestito con una lunga tunica un tempo bianca e oggi cosparsa di macchie.
Parla un inglese decente ed è diretto ad Atbara. “Nessun problema ti porto io ad Atbara e poi da lì alle piramidi puoi trovare qualche autobus”.
Parla dell’importanza della famiglia, di Islam, di Gesù, della vita dopo la morte inceppando qua e là con alcuni termini per i quali deve pensare. Accompagna ogni momento di riflessione facendo rallentare la macchina. Per lui Dio è la cosa più importante, tutto ciò che è materiale non ha poi tutta questa importanza. Una sosta in una baracca trasformata in ristorante posizionata all’inizio di un villaggio che fa venir voglia di fuggire, svela il contenuto della busta nera tenuta con cura vicino alla leva del cambio. Pacchi di banconote da dieci e venti sterline sudanesi (10 sterline sudanesi all’epoca corrispondevano a poco più di tre euro), in quella busta dalle tinte scure ci sono migliaia e migliaia di euro. Quando si parla del suo lavoro diventa sfuggente: un uomo d’affari è il massimo che concede. Ad Atbara mi forza a salire su un autobus dopo aver dato indicazioni all’autista di lasciarmi il più vicino possibile alle piramidi. Vuole darmi dei soldi e il rifiuto lo infastidisce ma alla fine cede e rimane fermo fino a quando il cassone di metallo non si mette in movimento.
Il sole è ormai prossimo a scendere, lo spettacolo di quella palla di fuoco che lentamente scende per scontrarsi con l’orizzonte sabbioso, fa dimenticare che va trovato un posto dove passare la notte. L’autista scorbutico fa segno che è giunta l’ora di scendere e indica la posizione del sito archeologico. Il cielo si è fatto scuro. Non rimane che trovare un luogo dove stendere il sacco a pelo e passare il capodanno. Attratto da quel sito di straordinaria importanza, mi avvicino, noto i fari di una jeep che percorre il perimetro del sito e poi si dirige verso la strada principale. Ora sono solo. Nasce l’idea di lanciare lo zaino oltre il filo spinato e sistemarsi tra le piramidi. Una bizzarra sensazione dovuta all’unicità della situazione mi fa vagare per il sito munito di torcia con leggiadria.
Ai piedi di due piramidi stendo il sacco a pelo e dopo aver impostato l’allarme per le 23.55 mi addormento. L’allarme suona, apro una bottiglia di succo di frutta per festeggiare il nuovo anno. Alcune folate d’aria, lambendo le piramidi, sembrano farle divenire strumenti musicali. Generano un suono soave. Quando il venticello cessa, torna un silenzio unico che incute timore. In tal caso basta gettare lo sguardo verso il cielo, quel cielo nel deserto tanto caro a chiunque abbia passato una notte in questo ambiente. In quella miriade scintillante si trova sollievo, calma e una stravagante forma di gioia. Quel cielo stellato entra nei sogni e toglie dalla mente i riferimenti storici legati alle piramidi e ai suoi re. Ma per l’esplorazione del sito c’è la prima mattina del nuovo anno.
Paolo Zambon è l’autore di due libri
“Inseguendo le ombre dei colibrì” e “Viaggio in Oman”