Quando si esce da Yogjakarta il sole è già alto e lasciarsi alle spalle la densità urbana provoca un’ebbrezza gradevole. La destinazione, a una manciata di chilometri dal capoluogo, è il tempio di Prambanan: luogo di straordinaria importanza storico-religiosa sull’isola indonesiana di Java.
Si lascia la strada a quattro corsie con il suo pullulare di motociclette simili a schegge impazzite e si approccia l’ingresso al tempio. Solo a quel punto, oltrepassato un boschetto la cui ombra lo fa assomigliare a un’oasi nel deserto, le tre strutture principali appaiono in tutta la loro grandezza come uscite da un incantesimo.
Il complesso religioso risale al nono secolo ed è dedicato a Trimurti, la forma triplice dell’Essere supremo dell’Induismo, che si manifesta nelle tre divinità di Brahma (il creatore), Visnù (il preservatore) e Siva (il distruttore). A esse sono dedicati gli edifici principali tra i quali svetta, con i suoi 47 metri di altezza, quello eretto in posizione centrale per Siva.
Avvicinandosi si delineano con maggior chiarezza le costruzioni che fronteggiano i tre templi principali, si tratta dei templi Vahana dedicati a quelle entità, animali o mitiche, che nella tradizione induista vengono considerate i veicoli delle divinità.
Un sito la cui costruzione, stando agli storici, fu voluta per solennizzare un successo politico-religioso: dal punto di vista politico il passaggio di poteri nel cuore dell’isola di Java, dalla dinastia buddista di Sailendra a quella induista di Sanjaya. Da un punto di vista religioso un mutamento dal buddismo Mahayana, all’induismo Shivaita.
Gli anni di gloria del tempio di Prambanan si esaurirono ben presto e, già a metà dell’undicesimo secolo, per un mix di cause naturali (eruzioni e terremoti) e politiche (spostamento del centro politico più a oriente), il sito venne lentamente abbandonato.
A sfogliare i volumi di arte indonesiana, con le immagini in bianco e nero che mostrano lo stato in cui versavano le strutture principali sul finire del diciannovesimo secolo, non si possono che apprezzare gli sforzi profusi per rimettere in sesto ciò che all’epoca appariva come una dentatura cariata.
Il tempo scorre veloce al cospetto di questi gioielli induisti. Si passeggia da un tempio all’altro, si varcano portali, si salgono scalini, si scrutano espressioni di volti scolpiti sulla pietra, ci si porge domande. Ne esce un percorso che, se fosse tracciato su carta, genererebbe un ingarbugliato scarabocchio simile a quello prodotto da una mente folle. Ma questi templi necessitano di tempo, di passaggi multipli. I bassorilievi che presentano la versione indonesiana del Ramayana, sono chicche d’arte che dimostrano il livello avanzato raggiunto diversi secoli fa.
Gli ombrelli colorati di un gruppo di turisti pacati, tutti presi nella lotta contro un sole impietoso, sembrano coriandoli. In questo ambiente dominato dalle cromie scure dei gioielli architettonici e delle loro ombre, quelle scie di tinte gaie che si spostano lentamente tracciano pennellate di festosità.
Il caldo non disturba più di tanto, il silenzio e la quiete che regnano su queste rovine suggeriscono un rallentamento della visita. Allontanandosi dalla zona centrale si scoprono i resti dei templi Pervara. Un tempo erano ben 224, disposti su quattro linee concentriche che fungevano da recinto sacro. Ora non sono che dei cumuli di blocchi di pietre che sembrano attendere che qualcuno li assembli.
Lo spettacolo del cuore del complesso visto da distante è sensazionale. I templi appaiono come un plotone di guardiani giganteschi fossilizzati e con un cappello a punta che punzecchi il cielo. Da qui è più facile comprendere la filosofia architettonica che si cela dietro la forma elegante del tempio di Siva. Filosofia che vuole presentare la struttura come l’imitazione del monte Meru, la montagna sacra dimora degli dei indù.
Non si corre quindi il rischio di esagerare se si definiscono le tre strutture principali delle divinità architettoniche.
Paolo Zambon è l’autore di due libri “Inseguendo le ombre dei colibrì” e “Viaggio in Oman”